‘…uno sterco / che da li uman privadi parea mosso’: adulatori dissenterici?
In molti luoghi dell’inferno dantesco, le anime dannate sono ancora in grado di secernere ‘umori’ organici come faceva il loro corpo durante la vita terrena: eccezion fatta per il sangue, si tratta essenzialmente di umori putridi e ‘vili’ facenti parte dell’ultima fase della digestione umana, vale dire di quegli humores così detti excrementivi del tutto inutili al nutrimento della persona e per questo espulsi da corpo. Secondo la medicina antica cui anche Dante si era accostato studiando nelle «scuole de li religiosi», dalla cozione del Chilo (vale a dire dal nutrimento che dallo stomaco è passato al fegato) si generavano tre tipi di ‘umori’, quelli utili in senso primario come il sangue e la bile, quelli utili in senso secondario come il mestruo femminile e il latte materno e, infine, quelli inutili come come il sudore, il muco, la saliva, l’urina, le lacrime e quei sieri putrescenti derivanti da ferite e da malattie.
La secrezione di alcuni di questi ‘umori’ si riscontra in ben noti passi della prima Cantica del Poema dantesco: in Inf. III, 67 i mosconi e le vespe tormentano gli ignavi facendo loro sanguinare il volto e anche in Inf. XIII, 37, sebbene la scena richiami all’Eneide di Virgilio, l’anima di Pier delle Vigne che si è fatta ‘sterpo’ sanguina; la nona bolgia poi, coi seminatori di discordia lacerati e fatti a pezzi dalla spada di un diavolo, è tutta intrisa di sangue come come intriso di esso è il volto di Mosca dei Lamberti descritto in Inf. XXVIII, 105. Nell’ottavo cerchio della decima bolgia infernale Dante descrive gli ‘umori’ prodotti dalle malattie cui sono affette le anime che vi dimorano, come «l’acqua marcia» che gonfia il ventre a maestro Adamo e che lì ristagna a causa dell’idropisia che lo affligge. Ma, soprattutto, quello infernale è il regno delle lacrime; di lacrime vere, reali e così copiose che i fiumi che lo percorrono sono formati proprio da questo umore liquido secreto dai dannati: se per il teologo Tommaso d’Aquino è impossibile che un’anima pianga in quanto priva degli organi digestivi in grado di formare l’ ‘umore’ delle lacrime, per Dante tale funzione organica è ben riproducibile dal momento che nell’aldilà quella ‘forza attiva’ che nell’utero materno aveva dato forma all’intero corpo umano, ricrea con l’aria che la circonda il medesimo organismo.
Le anime di Dante, insomma, hanno ricreati tutti gli organi di cui erano dotati i loro corpi prima che la morte le separasse da essi, organi capaci, grazie all’imperscrutabile volere divino, di espletare anche nel mondo ultraterreno la propria funzione organica. Degli organi atti a generare sangue, lacrime e ‘umori’ malsani, vale a dire degli organi ordinati alla digestione ne fa bella mostra l’anima di Maometto in Inf. XXVIII, 25-27:
Tra le gambe pendean le minugia;
la corata parea e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia
Ora, se nelle anime viene riprodotto l’apparato digestivo che serve a formare gli utiles humores sia primari che secondari e gli excrementivi humores, quale il motivo per cui non ritenere che i dannati abbiano ancora la capacità organica di defecare?
Ciò detto, viene subito alla mente il supplizio descritto da Dante nell’ottavo cerchio della seconda bolgia dove le anime di coloro che in vita furono degli adulatori sono immerse in uno sterco che, afferma il poeta, sembra provenire dalle umane latrine (v. 114: «da li uman privadi parea mosso»).
La «merda», per usare il termine dantesco, dove sono immerse queste anime è da loro stessa prodotta allo stesso modo in cui i fiumi infernali, siano essi di sangue o di lacrime, sono prodotti dalla secrezione umorale degli altri dannati; di ciò si era accorto, sebbene non seguito dai dantisti, Manfredi Porena il quale aveva perentoriamente chiosato il versetto 114 del canto XVIII sostenendo di credere «fermamente che Dante abbia crudamente immaginato che lo sterco lo producano gli stessi peccatori». Siamo d’accordo con Porena ma, a nostro giudizio, il poeta, propriamente parlando, non ‘immagina’: le anime che lui descrive sono realmente in grado di espletare quella che in vita era un’esigenza fisiologica come l’espulsione dei propri escrementi. Il fatto è che all’inferno questa funzione è divenuta una vera e propria pena!
Ed è Dante stesso a fornircene le prove, prove che i commenti dei dantisti non hanno prese per tali perché non si sono soffermati a considerare l’idea che le anime della Commedia possano essere capaci di ciò. Vediamo di quali prove stiamo parlando: al verso 103 del canto, prima di vedere con i suoi occhi le anime degli adulatori nella fossa riempita delle loro proprie deiezioni, Dante afferma di aver sentito «gente che si nicchia» e, come nota la Chiavacci Leonardi, il verbo ‘nicchiarsi’ deve per forza rimandare ad un suono di gemito emesso dai dannati e non, come affermano altri commentatori, al non udibile gesto del ‘rannicchiarsi’ quale quello che fanno i superbi di Purg. X, 116 («…la grave condizione / di lor tormento a terra li rannicchia»).
A nostro giudizio hanno ragione entrambi, nel senso che le anime degli adulatori si ‘rannicchiano gemendo’. Con ‘nicchiare’ Dante si richiama (come riconosce anche Porena) al verbo latino ‘niti’ che significa ‘gemere soffrendo’. Ma c’è di più: dato che dal suo participio passato ‘nexus sum’ si forma il verbo ‘nexare’ che significa ‘partorire con dolore’, l’idea che secondo noi Dante vuole trasmettere è quella dei dannati che assumono la naturale posizione di una partoriente, vale a dire in piedi flettendo le gambe così da sfruttare meglio i muscoli per spingere fuori il feto: praticamente la medesima posizione che si assume quando si evacuano gli intestini in una latrina. Tale immagine è richiamata anche nella maniera in cui Virgilio descrive, al verso 132, l’atteggiamento dell’adulatrice Taide che «or s’accoscia e ora è in piedi stante»: crediamo infatti che il significato del verso non valga a dipingerla, come afferma ad esempio la Chiavacci Leonardi, nell’atto di sedersi e drizzarsi in piedi scompostamente nel mentre in cui «si graffia con l’unghie merdose». Pensiamo piuttosto che il verbo ‘accosciarsi’ sia un francesismo dantesco tratto dal verbo ‘accoucher’ che anche in questo caso significa ‘partorire’. Taide, come gli altri dannati che si trovano con lei in quella fossa, si flette, o meglio «s’accoscia» in continuazione per defecare.
Se le nostre supposizioni sono esatte la pena cui sono sottoposti all’inferno le anime degli adulatori non consisterebbe soltanto nell’essere immersi nello sterco quanto dall’essere afflitti da una continua ed eterna dissenteria, secernendo per l’eternità l’ ‘umore’ organico più immondo. Certamente questo è uno dei luoghi infernali più sozzi, vili e scurrili che Dante ci descrive ma il contrapasso e chiaro: come in vita gli adulatori avevano fatto uscire dalla bocca parole suasive e dolci per ingraziarsi il prossimo, adesso, per contrapposizione faranno uscire merda dal loro deretano.