La beatitudine di Piccarda e il «..disio d’i corpi morti»
Passa di solito inosservato il fatto che all’altezza del canto XIV del paradiso, ai versi 61-66, si consumi un vero e proprio ‘dramma’; si badi bene: non si tratta di un dramma lirico, inerente allo svolgersi del racconto ultramondano come tanti ve ne sono stati fino a quel momento. Si tratta, piuttosto, di un dramma che investe l’intera Cantica da un punto di vista ‘sistematico’, addirittura concettuale, e che, per questo motivo, rischia di gettare su di essa l’incomoda ombra della contraddizione. Vediamo dunque di cosa si tratta: ci troviamo nel cielo del Sole alla presenza dell’anima di Salomone che spiega al pellegrino Dante quanto e come la riappropriazione del corpo alla fine dei tempi sarà motivo, per le anime dei giusti, di una intensificazione della loro beatitudine dal momento che, grazie alla ricongiunzione ad esso «… la visïon crescer convene, / crescer l’ardor che di quella s’accende, / crescer lo raggio che da esso vene».
È a questo punto che si innestano i versi che segnano il passo ad una vera e propria aporia che spezza l’ ‘ordine razionale’ dell’affabulazione della Cantica; dopo le parole del Re di Gerusalemme Dante afferma che
Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostraro disio d’i corpi morti
Le anime radunate attorno alla scena, nel sentire pronunciate le parole di Salomone, non trattengono un moto di giubilo ed esclamano all’unisono un Amen il cui senso, sottolinea il poeta, non può che essere interpretato se non come il desiderio da parte loro di ricongiungersi al corpo mortale da cui si sono separate con la morte. Il desiderio sarebbe stato di per sé comprensibile se undici canti addietro Dante non avesse messo a parte il lettore di un altro dialogo intercorso con l’anima beata di Piccarda quando ancora si trovava nel cielo della Luna. Durante l’incontro con la nobile Donati, l’attore del viaggio divino aveva a lei rivolto, ai versi 64-66, la domanda se le anime del primo cielo paradisiaco desiderassero raggiungere un luogo fisico più vicino al Sommo Ente onde godere più perfettamente della Sua essenza:
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
desiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?
La questione presentata da Dante, sembra però essere sottesa ad una sorta di puerile ingenuità, al punto che che sia Piccarda che le anime che le stanno attorno si lasciano ‘scappare’ un sorriso misto di tenerezza a compassione — «Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco…» — tanto la risposta è evidente: la grazia divina di cui è investita un’anima beata fa sì che essa non desideri altro da ciò che essa ha:
Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, d’altro non ci asseta.
Stando alle parole di Piccarda, cioè, in un’anima beata non può albergare alcun moto di desiderio essendo quest’ultimo, per sua intrinseca natura, un qualcosa che inficierebbe la perfezione della stessa beatitudine. Del resto, per ciò che concerne quest’ultima, già nel terzo trattato del Convivio, xv 3-4, Dante aveva prosato quanto espresso dalla terzina di Paradiso III, 70-72 affermando che desiderio e beatitudine insieme costituirebbero un vero e proprio ossimoro ontologico: «con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere beato; ché quantunque l’altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio: lo quale essere non può con la beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa defettiva; ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto».
Insomma, mettendo a confronto quanto esplicato da Piccarda nel canto III con la reazione dei beati del canto XIV, delle due l’una: o le anime dei beati non hanno alcun desiderio e quindi non possono essere inclinate, desiderativamente, al corpo da cui si sono separate, ovvero nutrono per esso il desiderio di riappropriarsene ed allora non godono di una perfetta beatitudine; tertium non datur.
Ora, il fatto è che, evidentemente, la domanda da Dante rivolta alla sua concittadina non era poi così ‘ingenua’ quanto il ‘sorriso’ di quest’ultima lascerebbe intendere dal momento che la questione della beatitudine più o meno perfetta grazie alla riappropriazione del corpo era stata da lui posta alla luce di una ‘reale’ ambiguità filosofico-teologica in materia. Ambiguità che investiva tanto la corrente domenicana che quella francescana, le due scuole cui Dante si era dottrinalmente formato nei primi anni Novanta del XIII secolo a Firenze, e ambiguità che né la prima e né la seconda erano in grado di sciogliere. A nostro avviso quest’ultimo rilievo viene bene dimostrato se prendiamo a riferimento due fonti dottrinali cui l’Alighieri poteva attingere per dirimere l’argomento in questione quali il domenicano Tommaso d’Aquino ed il francescano Matteo d’Acquasparta, il pensiero dei quali, invero, risultava ben poco coerente in materia. Riguardo al campione dei domenicani basti prendere a riferimento quanto egli, sul tema del perfezionamento della beatitudine grazie al corpo glorioso, aveva esposto nel Commento alle Sentenze e nella Summa Theologiae: se nella prima opera aveva infatti affermato che la riappropriazione del corpo comporterà per l’anima beata un aumento qualitativo, e dunque intensivo, della beatitudine, nella seconda tale idea si stemperava coll’asserire un incremento di perfezione meramente quantitativa, e, dunque, estensiva. E se la scuola domenicana, con Tommaso, non offriva a Dante una risposta univoca in merito al problema, quella francescana, sebbene più eclettica, di certo non appariva più chiara; il teologo d’Acquasparta, nelle sue Quaestiones de anima beata dichiarava bensì essere opinione contraria alla fede il ritenere che un’anima del paradiso non fosse beata perché non ancora congiunta al suo corpo, ma affermava anche non essere la beatitudine completamente perfetta senza la riappropriazione di quello.
I canti III e XIV del Paradiso mettono dunque in scena una tensione dottrinale che al tempo di Dante non era ancora stata teologicamente risolta: il problema di una beatitudine imperfetta fino alla resurrezione dei corpi troverà la sua acme a pochi anni di distanza dalla morte del poeta fiorentino quando, nel 1333, il papa Giovanni XXII sostenne tale tesi come verità di fede scatenando così una vera propria ‘guerra intellettuale’ con i fautori della dottrina opposta che lo tacciarono di eresia. Fu per questo che il giorno prima di morire, il 4 dicembre del 1334, egli ritrattò quanto affermato l’anno precedente ed il suo successore, Benedetto XII, mise fine alla spinosa questione promulgando la costituzione Benedictus Deus con la quale, una volta per tutte, si prese a partito la tesi che le anime dei giusti godono di una perfetta visione beatifica. Ma al momento in cui Dante metteva mano alla stesura della terza Cantica, la Chiesa non si era pronunciata ‘dogmaticamente’ sulla questione, e pertanto egli non poteva che riportare ‘fedelmente’ l’ambiguità della beatitudine ‘perfetta e imperfetta’ nel modo in cui si è visto. Dante, sebbene a nostro avviso propendesse per la tesi ‘piccardiana’ secondo la quale la beatitudine non può contemplare alcun tipo di difetto quale è un desiderio (si pensi al passo sopra citato del Convivio), era ‘costretto’, rebus sic stantibus, a menzionare anche l’altro corno dell’alternativa ben consapevole che il «disio d’i corpi morti» avrebbe creato, nell’economia del testo, una tensione dal sapore contraddittorio.
Tuttavia, il desiderio che alberga nei beati dimidiando la loro perfezione trova in Dante una giustificazione che, in qualche modo, sublima questa contraddizione; ma si badi: non si tratta di una giustificazione filosofico-teologica alla quale egli avrebbe potuto attingere dalle dottrine veicolate dalla Scolastica, e ciò lo dimostra quel «forse» che la introduce. Il desiderio che ha mosso le anime beate a quell’unisono Amme deriverebbe
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.
Essendo, cioè, le anime dei beati rese irriconoscibili dalla luce della grazia che le trasfigura in «sempiterne fiamme» — infatti lo stesso Dante non aveva riconosciuto Piccarda quando essa si gli si fa incontro — il desiderio di riappropriarsi del proprio corpo non è sotteso all’ ‘egoistico’ impulso di perfezionare il proprio stato quanto ad un moto d’amore affinché i propri cari siano nuovamente visibili nelle fattezze con cui sono state amate durante la vita terrena. Quello dei corpi morti è dunque un desiderio non filosofico o teologico, ma un desiderio tutto poetico, e, pertanto, ciò che non poteva fare il Dante-filosofo, eliminare la contraddizione tra i canti III e XIV del Paradiso, lo fa il Dante-poeta.