Sul (presunto) sadismo di Dante

Non sono pochi i saggi incentrati sulla figura di Dante che cercano di delinare e definire quali siano stati i suoi contorni psicologici alla luce della sua più celebre opera: la Commedia. Proprio confrontandosi con essa, e precipuamente sulle pene che il Poeta descrive nella prima Cantica infernale, alcuni di questi studi hanno creduto di poter dimostrare che Dante fosse affetto da quella particolare forma di parafilia tramite cui un soggetto trae piacere nel provocare un dolore (fisico ma non solo) ad un’altra persona e meglio nota, grazie alla vita del Marchese Donatien Alphonse François de Sade, col nome di ‘sadismo’. Essendosi venuta a creare una sorta di vera e propria disputa tra i sostenitori di questa tesi e chi, al contrario, la respinge in toto, questo intervento porterà a favore dei secondi una ragione finora inosservata.

Ma procediamo con ordine: un’implicita affermazione che Dante si sia quanto meno compiaciuto nel comminare alle anime dei dannati terribili ed eterne afflizioni è stata a nostro avviso avanzata già a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo da Arturo Graf nel saggio intitolato Il riposo dei dannati contenuto nel suo Miti, leggende e superstizioni nel Medioevo (riedito da Mondadori nel 1996 e poi nel 2002). In quello studio egli metteva in evidenza una nutrita letteratura di testi altomedievali come la nota Visio Pauli al fine di mostrare che, al tempo di Dante, esisteva una solida tradizione culturale secondo la quale l’infinita misecordia di Dio non poteva che estendersi anche sui dannati facendo sì che le loro pene, di tanto in tanto, si alleviassero per poi ricominciare in un continuo altalenarsi di dolori più o meno intensi. Una letteratura che certo il poeta fiorentino non poteva non avere presente e che pertanto, secondo Graf, egli avrebbe ben potuto decidere di utilizzare nel Poema che, al contrario, resta come depauperato (avendo optato per le inesorabili afflizioni che descrive) di una lirica che lo avrebbe reso più eccelso. Questa, infatti, la chiusa di quel saggio: «Che Dante abbia conosciuta la Visio Pauli è più che probabile; che non l’abbia imitata in quella finzione dell’interrotto gastigo è, credo, da deplorare. Di quella finzione il meraviglioso suo ingegno avrebbe saputo senza dubbio giovarsi. Con far tacere subitamente le grida disperate dei dannati, con farle poi ricominciare, giunto il termine del riposo, più spaventose di prima, egli avrebbe trovato la via a bellezze poetiche di prim’ordine, degne del poema immortale».

Ora, sul fatto che Dante si sia trovato di fronte alla possibilità di trarre ispirazione da quella letteratura, e solo su quello, siamo anche noi d’accordo; ma il ‘deplorare’ l’alternativa da lui seguita nel prendere a partito tutt’altra dottrina teologica, anch’essa ben radicata al suo tempo, secondo cui la misecordia divina non interferisce con la Sua giustizia, crediamo abbia appunto aperto la strada ad interpretare le pene dantesche come una forma di sadismo. Se così fosse, cosa pensare allora dell’autore della Visio Tungdali, quel monaco irlandese Marcus che tanto si accanisce sulle anime dannate e che ha ispirato le grottesche e orribili rappresentazioni infernali di Hieronimus Borsch? Saranno forse le dettagliate descrizioni di anime fagocitate da terribili demoni per poi essere defecate e nuovamente inghiottite per l’eternità un chiaro sintomo della sua coprofilia?

Ritenere che Dante abbia ‘preferito’ la soluzione del supplizio eterno senza sconto di pena a causa di una ‘patologia sessuale’ significa, tra l’altro, decontestualizzare la sua opera dai fini etici e morali che essa si era prefissata e che egli rende manifesti nell’ Epistola a Can Grande con la quale dedica al nobile Scaligero la terza Cantica del Poema. Affinché il genere umano possa meritarsi l’eterna beatitudine deve essere istruito su quale sia la condizione dei dannati, ed è per questo motivo, ricorda il poeta, che l’Inferno è stato descritto in modo tanto orribile e ripugnante. Non v’è certamente del sadismo nelle lacrime che Dante dice di aver versato nell’udire i «sospiri, pianti ed alti guai» non appena varcata la porta infernale: la sua prima reazione davanti alle pene non è gioia ma compassione per quella parte di umanità che si è dannata. Gino Raya omette di citare questo incipit dell’esperienza nel «doloroso regno» percorso dall’Alighieri quando afferma, in suo saggio intitolato Il sadismo di Dante, che «è proprio l’indole sadica di Dante a trovarsi più a suo agio nella struttura infernale» [Cf. Dante In The Twentieth Century, Boston 1982, p. 131]. Ma accusare il poeta fiorentino di sadismo significa decontestualizzare la sua opera anche dalla dottrina filosofico-teologica entro la quale essa si era formata; significa, in altre parole, fare di Dante un ‘semplice poeta’ e scordarsi che lui, formatosi «ne le scuole de li religiosi», ha strutturato il suo Poema in modo che esso rispecchiasse proprio quella cultura che l’Occidente latino, in modo tutt’altro che pacifico, aveva assimilato lungo il XIII secolo. Dante è un autore che appartiene al pensiero della Scolastica medievale la quale, proprio in merito alla questione se i dannati potessero avere uno sconto temporaneo di pena, si era espressa chiaramente negando una simile eventualità; il francescano Bonaventura da Bagnoregio, ad esempio, aveva affermato nel commento al quarto libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, non solo che all’inferno non ci può essere una diminuzione dell’intensità di pena, ma anche che la Chiesa non intende pregare per le anime maledette dal momento che a niente possono servire i suffragi dei fedeli nei loro confronti. E queste affermazioni, condivise pure dal teologo domenicano Tommaso d’Aquino, erano rivolte proprio contro coloro che avanzavano l’idea che le anime infernali alternassero alla dannazione dei momenti di minor pena.

Possono queste ragioni spiegare le macabre descrizioni dei supplizi infernali senza dover ricorrere al ‘sadismo dantesco’? Forse; ma a nostro avviso c’è di più. L’inferno, come dicevamo, deve far paura per convincere l’umano genere che nell’aldilà esiste una giustizia eterna e terribile; vediamo dunque il perché.

Durante la seconda metà del XIII secolo, a Parigi, il centro nevralgico degli studi filosofico-teologici dell’Occidente latino, era andata maturandosi una sorta di ‘ateismo’ secondo cui l’uomo non solo è in grado di raggiungere, ma è anche votato ad una felicità tutta terrena dal momento che non esisterebbe una vita dopo la morte; una concezione, se vogliamo ‘epicurea’, che incoraggiava a perseguire i piaceri di questo mondo senza la preoccupazione derivante dall’idea di un merito o di una punizione nell’aldilà. Tra le 219 tesi condannate nel 1277 dal Vescovo parigino Etienne Tempier, ne ritroviamo alcune che rimandano a questo stile di vita ‘libertino’: la tesi 166 [seguiamo la numerazione del Carthularium Universitatis Parisiensis, Paris 1889, vol. 1, p. 553]: «Il peccato contro natura, ad esempio l’abuso nel coito, sebbene vada contro la natura della specie, non va contro la natura dell’individuo»; la 168: «La continenza non è essenzialmente una virtù»; la 169: «L’astinenza dall’atto sessuale corrompe la virtù e la specie»; la 170: «La persona sfortunata non può moralmente agire bene»; la 172: «Il piacere dell’atto sessuale non impedisce l’atto o l’uso dell’intelletto»; la 176: «La felicità si raggiunge in questa vita e non nell’altra»; la 183: «La semplice fornicazione, anche tra persone sposate, non è peccato». Enunciatori di queste tesi erano coloro che, come Epicuro, «l’anima col corpo morta fanno» (Inf., X v. 15) perché se l’anima muore col corpo, tanto vale perseguire in questa vita i massimi piaceri raggiungibili. Ora, di cosa può aver massimamente paura colui che crede che tutto, piaceri, lusso, gloria, conoscenza, ecc., finisca con la morte dal momento che non estiste vita futura? Ovvio: della morte stessa quale ineluttabile termine di ciò che ha amato e perseguito nell’unica vita che gli è stata concessa di vivere. Proprio a fronte di questa ‘paura atea’ la condanna della tesi 178 secondo cui «La fine più terribile è la morte» e la specificazione di essere essa erronea «qualora si escluda l’estremo terrore dell’inferno», dovevano ricordare ai novelli epicurei del XIII secolo che la giustizia divina ha apparecchiato nell’oltretomba, e per l’eternità, atroci e macabri tormenti. Prospettare per le anime dannate dei temporanei alleviamenti di pena equivaleva a concedere che il terrore dell’inferno potesse essere, tutto sommato, non così ‘estremo’ e, di conseguenza, equivaleva anche, se non a giustificare, quanto meno a offrire un ‘pretesto’ a condurre una vita licenziosa ‘cullandosi’ nell’idea che la grazia divina avrebbe posto un limite alle punizioni infernali.

Poiché Dante ebbe certamente modo di venire a conoscenza della condanna di Tempier durante i suoi studi nelle scuole degli Ordini Mendicanti presenti a Firenze, siamo convinti che le accurate descrizioni dei supplizi che affliggono le anime infernali senza mai cessare non siano da leggersi come il sadico compiacimento del dolore altrui; Dante era un profondo conoscitore della teologia scolastica così come delle dispute dottrinali che avevano animato il XIII secolo e, per tornare alla critica mossa da Graf nei suoi confronti, egli non poteva non descrivere che un inferno totalmente privo di misericordia. Non sadismo, dunque, ma totale adesione alle dottrine teologiche del suo tempo.