«…fatti non foste a viver come bruti». Sigieri di Brabante e il contrapasso di Ulisse
Se mettiamo a confronto il supplizio al quale è condannata l’anima di Ulisse (unitamente a quella di Diomede) con quello di Guido da Montefeltro o con la pena purgatoriale dei lussuriosi, ne emerge una differenza dottrinale che la dice lunga, a nostro giudizio, circa la presenza di Sigieri di Brabante nella Commedia; una presenza che, non limitandosi alla sola citazione diretta che di lui viene fatta in Par. X, 136-138, dimostrerebbe una importante influenza del Maestro delle Arti di Parigi sul pensiero di Dante. Vediamo dunque di cosa si tratta.
Nell’ottava e nona bolgia dell’ottavo cerchio infernale, come noto, coloro che in vita si meritarono l’eterna dannazione per aver usato subdolamente il proprio intelletto ai danni del prossimo subiscono la pena del fuoco e le loro anime, invece di riprendere le fattezze del corpo cui erano state unite, sono tutt’uno con l’elemento igneo da cui vengono combuste. Dopo gli avelli infiammati dove si trovavano gli eresiarchi e dopo la pioggia di fuoco che tormentava i violenti contro Dio nel terzo girone del settimo cerchio, all’altezza dei canti XXVI e XXVII dell’Inferno, Dante mette in campo (secondo una prospettiva tutta teologica) quella la pena ignea che, tra tutte, era considerata non solo la più attinente ai dati scritturali dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma anche la pena su cui le dottrine filosofiche e teologiche dibattevano aspramente già a partire dagli anni Sessanta del XIII secolo. L’argomento della disputa non era ovviamente se all’inferno potesse esserci il fuoco o se le anime dannate fossero da esso torturate; la questione riguardava invece in che modo e misura il fuoco potesse agire su quelle. Com’è possibile, infatti, che un elemento naturale terrestre possa ‘bruciare’ un’anima immortale? E in che senso essa ‘patisce’ la sua azione?
Nel 1270 prima, e nel 1277 poi, il Vescovo di Parigi Étienne Tempier condannò come contraria alla fede cattolica la tesi secondo la quale un’anima separata non può soffrire del fuoco infernale, tesi che era stata apertamente sostenuta da Sigieri di Brabante nel suo commento al terzo libro del De anima di Aristotele ma che poteva pure essere declinata sul pensiero del celebre Tommaso d’Aquino, il campione dell’Ordine domenicano allora in aperta polemica con quello francescano. Sostenendo l’assoluta immaterialità dell’anima, l’Aquinate aveva infatti più volte ribadito che essa viene bensì afflitta dal fuoco ma non in quanto da esso materialmente bruciata: secondo il teologo domenicano la pena del fuoco eterno, strumento della giustizia divina, consisterebbe nel fatto che un’anima è vincolata – alligata – ad essere la forma sostanziale di quell’elemento restando così impedita a raggiungere il luogo che le sarebbe naturale. Di contro i teologi francescani, muovendo dall’idea che l’anima dell’uomo fosse anche materiale, impugnarono la dottrina domenicana sostenendo la reale ed eterna combustione dei dannati e dunque la loro sofferenza ‘fisica’.
Ora, se non v’è dubbio che le pene infernali e purgatoriali siano state da Dante escogitate nell’ottica propriamente francescana, crediamo che il tormento di Ulisse costituisca, all’interno della Commedia, una singolare eccezione che può essere chiarita e compresa solo facendo riferimento, da una parte, alle dottrine sopra accennate e, dall’altra, tenendo bene alla mente la nota teoria del contrapasso. L’eccezionalità del supplizio dell’eroe greco consiste proprio nel fatto che egli non sembra patire l’azione combustiva del fuoco al quale è unito. Se la fiamma in cui è racchiusa l’anima di Guido da Montefeltro, dopo aver terminato il suo racconto, si allontana dal poeta fiorentino «torcendo e dibattendo ’l corno aguto» dal dolore, quella di Ulisse, una volta cessato di parlare, ritorna immobile, fissa, «dritta […] e queta» come lo era prima di «crollarsi» sull’incalzo di Virgilio a narrare della sua morte; se, ancora, la voce del montefeltrano «mugghiava» dal dolore provocato dall’azione del fuoco, il monologo del personaggio omerico non è scosso da alcun patire: esso si svolge con tono monocorde dal verso 90 al verso 142 del canto XXVI senza il benché minimo accenno ad una sofferenza ‘fisica’.
Il fuoco dei regni dell’Oltretomba affligge le anime con cui entra in contatto, le brucia; e a dirlo non sono soltanto le anime incontrate da Dante: non si scordi infatti che, tra tutte le pene eterne e temporali, quella del fuoco è stata esperita da lui medesimo quando, per raggiungere la vetta del Purgatorio, è costretto ad attraversare le fiamme dove si purgano le anime dei lussuriosi. Un fuoco, afferma il poeta, di un così intenso calore che un tuffo nel vetro liquefatto sarebbe risultato refrigerante.
Per quale motivo, allora, non v’è niente nell’arcinoto passo di Ulisse che possa richiamare quel dolore sensibile cui tutte le anime sono sottoposte? Persino il fiero Farinata, durante il celebre rinfaccio con Dante, fa un accenno al tormento di quell’ara che un giorno lo rinchiuderà per sempre. Eppure, se torniamo alle discussioni dottrinali concernenti la pena del fuoco, possiamo dimostrare che Dante ha riservato all’eroe omerico un martirio per certi aspetti ben peggiore dei supplizi ‘corporali’ che affliggono le altre anime dell’Inferno e del Purgatorio. Scartata l’ipotesi che per l’anima di Ulisse Dante intendesse richiamarsi alla tradizione francescana del fuoco che ‘realmente’ brucia i dannati, ci sembra altrettanto da rifiutare la possibilità che poeta fiorentino avesse in mente per il personaggio del XXVI canto l’alligatio di Tommaso; se è vero infatti che secondo il teologo domenicano un’anima immateriale non può soffrire l’azione combustiva del fuoco, vero è anche che a queste anime egli riserva comunque una afflizione spirituale di cui non v’è traccia nel passo dantesco. Inoltre non dobbiamo scordarci che, dopo la condanna del 1270, Tommaso ritrattò quanto esposto circa la pena del fuoco affermando che i dannati realmente ne patiscono gli effetti.
All’interno del dibattito di cui ci stiamo occupando, l’unico ad aver sostenuto che un’anima separata resta completamente impassibile nelle fiamme fu quel Sigieri di Brabante che, come afferma Dante nel canto X del Paradiso, «leggendo nel Vico de li Strami, / sillogizzò invïdiosi veri» ed è pertanto alla sua dottrina che dobbiamo rifarci per comprendere la pena di Ulisse; ma questo, dopo esserci posta la domanda in che cosa consista il suo contrapasso. L’idea che egli bruci in una fiamma allo stesso modo in cui, per il suo inganno, bruciò Troia non convince proprio perché egli non sembra patire l’azione combustiva del fuoco. Invero, l’idea di Dante è ben altra e si richiama al testo sigeriano. Commentando il terzo libro del De anima di Aristotele, il filosofo brabantino sostiene che l’anima dell’uomo, per espletare la propria virtù intellettiva, non può che unirsi ad un corpo che renda possibile tale attività razionale, vale a dire il corpo umano. La pena del fuoco, dunque, consisterebbe nel fatto che l’unione ad un elemento che non le è congeniale per natura, la rende ipso facto irrazionale. Quale peggiore pena per l’astuto Ulisse ‘distruttore di città’? Proprio lui che voleva «divenir del mondo esperto»; proprio lui che per placare la sete di conoscenza non esitò ad abbandonare la famiglia; proprio lui che ricordava ai suoi compagni d’avventura
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
proprio lui, è condannato per l’eternità a non poter far uso di ciò che contraddistingue l’umana semenza, la ragione. Ulisse, insomma, secondo la prospettiva sigeriana che Dante qui riprende, altri non è che un bruto. E se questo non è il contrapasso più riuscito dell’intera Commedia, di sicuro è il più ‘sottile’: un omaggio di Dante alla «luce etterna di Sigieri» e ad una sua tesi che la dottrina cattolica fece passare come contraria alla fede.