L’avarizia e l’usura (parte prima): la questione del prestito ad interesse al tempo di Dante
Nel 1335 il Capitolo Provinciale dell’Ordine domenicano riunitosi a Firenze fece divieto ai propri confratelli di leggere le opere di Dante Alighieri, sia quelle scritte in latino che quelle scritte in volgare. Ad essere colpito, dunque, non era soltanto il ‘Dante politico’ della Monarchia, ma anche il ‘Dante letterato, poeta e filosofo’ del Convivio e, in particolar modo, della Commedia: proprio quest’ultima opera, infatti, se da una parte riproponeva in versi le invettive contro la corruzione della Chiesa, dall’altra mostrava, proprio ai domenicani, quanto e come il suo autore avesse aderito in più di un’occasione alle dottrine filosofiche e teologiche dell’altro Ordine Mendicante contro cui si erano più volte scontrati, quello francescano. In realtà, fin dai primi anni dalla sua morte e proprio a causa delle sue dottrine politiche e filosofico-teologiche, era già iniziata per il poeta fiorentino una vera e propria damnatio memoriae che ebbe nell’Ordine di San Domenico uno dei suoi principali promotori.
Alla luce di quanto detto la censura del 1335 è dunque ben spiegabile ma, aggiungiamo, non del tutto comprensibile: è bensì vero che Dante, nella sua opera maggiore, ha più di una volta preso partito per le dottrine francescane in merito a questioni molto importanti e su cui il pensiero medievale dibatteva aspramente almeno a partire dalla metà del XIII secolo, ma è anche vero che in molti luoghi della Commedia egli dimostra di aderire, e su argomenti di non minore importanza, alla corrente domenicana. Nel XXV canto del Purgatorio Dante sostiene apertamente la tesi tomista secondo la quale nell’uomo è presente la sola anima intellettiva e non, come professavano i francescani, la contemporanea sussistenza di tre anime (vegetativa, sensitiva e intellettiva) e, nel XXI e XXX canto del Paradiso, è invece la dottrina domenicana della ‘luce di gloria’ ad essere professata: i beati, cioè, possono contemplare Dio non grazie ad una loro intrinseca capacità a farlo come sostenevano i francescani, ma in virtù di uno ‘strumento’ estraneo alla loro natura fornito da Dio medesimo, la luce di gloria appunto. L’Ordine di san Domenico avrebbe potuto vedere nell’Alighieri un proprio ‘simpatizzante’ anche in molti altri luoghi dottrinali della sua opera; tuttavia su una questione di primaria importanza non solo filosofico-teologica ma anche economico-sociale avrebbe potuto trovare in Dante un vero e proprio alleato nella lotta contro l’Ordine di San Francesco, e cioè quella relativa alla liceità o meno del prestito ad interesse.
Tenuto conto che nei secoli XIII e XIV con il termine ‘usura’ era intesa qualsiasi (anche minima) somma di denaro richiesta come interesse a quanto prestato, mentre l’Ordine di san Francesco professante l’assoluta povertà sosteneva che fosse lecito esigere un interesse sul prestito quello di san Domenico, e con esso quello agostiniano, respingeva in toto tale possibilità. A sostegno di quest’ultima posizione non solo i precetti morali contenuti nelle Sacre Scritture ma anche, e soprattutto, quanto sostenuto dall’autorità di Aristotele secondo cui il denaro, semplice oggetto funzionale alla compravendita, è di per se stesso ‘sterile’ e dunque incapace di fruttare. Proprio a Firenze, il 22 febbraio del 1345, il governo della città dichiarò con una provvisione l’impossibilità a restituire ai cittadini le somme di denaro prestate al Comune garandendo però loro, al contempo, una perpetua rendita del cinque per cento come interesse sul capitale investito: in buona sostanza, e secondo la dottrina domenicana, ciò equivaleva a fare di questi cittadini fiorentini degli ‘usurai’ e condannarli così alla dannazione eterna.
Strettamente connesso a quello dell’avarizia, il peccato di usura rappresenta per Dante uno tra i peggiori mali che affliggevano la società del suo tempo e le invettive del poeta contro questa piaga attraversano gran parte della sua produzione letteraria per trovare nella Commedia il momento di stigmatizzazione dottrinale più forte e deciso. Ad aprire in breccia qualsivoglia dubbio circa la liceità del prestito feneratizio il canto XI dell’Inferno: qui Virgilio spiega infatti a Dante che l’usura non solo rientra tra i peccati di malizia – più gravi di quelli di incontinenza – ma anche che rappresenta, tra questi, la forma peggiore di violenza in quanto l’usura si identifica in un reato contro natura. E poiché «…natura lo suo corso prende / dal divino ’ntelletto e da sua arte» (Inf. XI, 99-100), gli usurai, ben più di quanto non lo facciano i sodomiti, offendono direttamente Dio guadagnando su ciò su cui, per natura, è impossibile lucrare, il tempo e il danaro. Per quanto concerne la gravità di questo peccato, Dante poteva fare ricorso ad un’ampia letteratura e proprio un teologo domenicano, Egidio di Lessines, aveva scritto, ben prima che il poeta mettesse mano alla Commedia, un trattato contro l’usura in cui sottolinea appunto quanto e come questo peccato di ‘malizia’ debba essere considerato molto più grave della sodomia. Anche per ciò che concerne la pena cui sono sottoposti gli avari in Inf.VII, 56-57 («questi resurgeranno del sepulcro / col pugno chiuso») è evidente – come è stato ben sottolineato da Ovidio Capitani – che Dante si sia richiamato a quanto sostenuto dal domenicano Remigio de Girolami nel suo De peccato usurae dove si afferma che gli avari usurai resteranno con le mani serrate a pugno perché in vita quelle mani si sono sempre strette per prendere e mai aperte per dare.
Appena superate le mura della città di Dite, ed oltrepassata la «gran campagna» che ospita i sepolcri in cui giacciono gli eretici, Virgilio prospetta a Dante il prosieguo del cammino che li attende enumerando, come detto, i peccati che mano a mano incontreranno lungo la loro discesa e quindi possiamo affermare che, al momento in cui venne scritto l’undicesimo canto della prima Cantica, l’Alighieri avesse bene in mente l’intera struttura dell’Inferno. Ma se questo è vero, allora c’è da credere che il Concilio di Vienne, svoltosi tra il 1311 e il 1313, interferì su quel progetto ormai già portato a compimento sconvolgendone l’impianto proprio in merito al problema dell’usura. Durante quel Concilio venne infatti stabilito che il reato di usura dovesse essere equiparato a quello di eresia ‘privando’ così il racconto dantesco della sua veracità dottrinale. E che Dante fosse a conoscenza dei decreti conciliari emanati a Vienne lo dimostra il fatto che nel XXV canto del Purgatorio egli prende partito per la tesi domenicana dell’anima intellettiva quale unica forma sostanziale dell’uomo che il Concilio aveva dato per verità di fede respingendo la tesi francescana della compresenza delle tre anime. A partire dal primo decennio del XIV secolo, dunque, la dottrina cattolica avrebbe voluto che Dante avesse incontrato gli usurai non nel terzo girone del settimo cerchio infernale dove sono puniti i peccati di malizia perpetrati dai violenti contro Dio ma nella pianura del sesto cerchio appena oltrepassate le mura della città di Dite tra gli eretici. Nonostante ciò, ancora dopo la morte del Poeta, i teologi che si battevano contro la liceità del prestito con interesse continuavano a seguire la via che anche Dante aveva percorsa per condannare l’usura senza possibilità di appello: attorno al 1330 l’agostiniano Gerardo da Siena la rifiuta non in quanto eresia, secondo l’ottica del Concilio di Vienne, ma in quanto reato di malizia che si pone contro natura.
Matteo Villani, nella sua Cronica, racconta che, a metà del XIV secolo, a Firenze «la gente se ne stava intenebrata» riguardo alla liceità o meno dell’acquisto dei crediti del Comune proprio a causa della disputa che contrapponeva l’Ordine di San Francesco a quello di San Domenico. Proprio quest’ultimo, come si è detto, non sfruttò la presa che la Commedia avrebbe potuto avere sulla società del tempo per combattere il dilagare del prestito feneratizio; o meglio non vide – o non volle vedere? – in Dante un valido alleato da affiancarsi nella lotta contro l’Ordine francescano. Quel che è certo è il fatto che Dante, per ciò che concerne la questione dottrinale dell’usura, può essere definito un ‘domenicano incompreso’.