L’avarizia e l’usura (parte seconda): per un’ipotesi sul ‘veltro’

 

Sulla figura profetica del cane da caccia di Inf. I, 101-102 che libererà l’umano genere dalla ‘lupa’ simboleggiante la cupidigia si sono espressi sette secoli di esegesi dantesca, ed è sufficiente scorrere la voce ‘veltro’ contenuta nell’Enciclopedia Dantesca per rendersi conto di quante siano state le attribuzioni che i commentatori della Commedia hanno dato per scioglierne il significato allegorico: dai personaggi storici che hanno vissuto al tempo di Dante come Enrico VII, Cangrande della Scala, Uguccione della Faggiola o Benedetto XI a quelli che avrebbero fatto la storia dei secoli successivi come Lutero, Carlo V, Garibaldi, Guglielmo I, ecc. sino ad arrivare ad Hitler e Mussolini. Non solo: a fianco di queste interpretazioni non sono mancate quelle di coloro che hanno visto nel ‘veltro’ dantesco la figura del Cristo da una parte o addirittura del medesimo Dante o della stessa Commedia dall’altra. Attualmente, sulla scorta di Francesco Mazzoni, la critica è abbastanza d’accordo nel sostenere che con esso Dante avesse voluto predirre l’avvento di un riformatore politico – come l’imperatore Arrigo VII – in grado di restituire l’umanità ad una dimensione sociale libera dalla cupidigia del denaro, vale a dire dalla piaga che più di ogni altra l’aveva condannata al disordine morale e civile.

L’assimilazione ‘veltro-Imperatore’ è stata spesso confortata supponendo che la figura del cane da caccia che sconfiggerà la lupa sia da identificarsi all’allegoria numerologica di quel «ciquecento diece e cinque» di Purg. XXXIII, 43 con la quale Beatrice profetizza a Dante l’avvento di colui che porrà fine alla delittuosa relazione tra il ‘gigante’ e la ‘puttana’: se in questo caso l’«enigma forte» del numero rimanda con tutta probabilità alla figura di un imperatore, non ci sembra plausibile l’ipotesi che il ‘veltro’ sia appunto da assimilarsi al «cinquecento diece e cinque» e, di conseguenza, a quello. Se, nella profezia di Beatrice, il compito del ‘DXV’ (‘515’ nella numerazione romana che è l’anagramma del termine ‘DVX’, cioè ‘condottiero’) è quello di mettere fine alla situazione storica di una Chiesa corrotta (la «puttana») fatta prigioniera dalla Francia (il «gigante») dopo le vicende intercorse tra Bonifacio VIII e Filippo IV, in quella di Virgilio compito del ‘veltro’ sarà, come dicevamo, quello di lottare e sconfiggere la ‘lupa’ simbolo della cupidigia. Per dare un’identificazione al ‘veltro’ è dunque opportuno riflettere con più attenzione all’importanza che, nella Commedia, riveste il problema dell’avidità di denaro e in particolar modo alla questione dell’avarizia e dell’usura.

Al tempo di Dante (come abbiamo detto in https://museocasadidante.it/blog/lavarizia-e-lusura-parte-prima-la-questione-del-prestito-ad-interesse-al-tempo-di-dante/ ) era aperta una disputa dottrinale tra gli Ordini religiosi dei francescani e dei domenicani circa la liceità o meno del prestito ad interesse: essendo favorevoli i primi e assolutamente contrari i secondi, il poeta fiorentino non poteva che parteggiare per i fratelli di San Domenico. Del resto, proprio a Firenze, persino uno Spirituale di ascendenze gioachimite come il francescano Pietro di Giovanni Olivi, sostenitore della povertà assoluta, aveva affermato negli anni Ottanta del XIII secolo la possibilità che una somma di denaro immessa nel circuito finanziario potesse ‘fruttare’ un interesse.

A creare un fronte difensivo affinché «l’antica lupa» non prendesse il sopravvento non restavano che i domenicani; e che essi fossero ben consapevoli di questo loro compito lo dimostra un preciso particolare del ciclo di affreschi che si trova a Firenze all’interno del Cappellone degli Spagnoli, l’antica sala capitolare di Santa Maria Novella dove nel 1235 vennero condannate proprio le opere di Dante. Nella parte inferiore del lato destro in cui Andrea di Bonaiuto ha raffigurato la ‘Chiesa militante e trionfante’ si trova un’allegoria che a nostro avviso può essere d’aiuto a sciogliere il significato del ‘veltro’ dantesco: in essa i domenicani sono rappresentati come dei cani bianchi e neri (i colori del loro abito) che azzannano, uccidendoli, degli altri cani (che potrebbero anche essere dei lupi!) dal manto grigio-marrone che ricorda, guarda caso, il colore del saio francescano. In piena lotta contro l’Ordine di San Francesco circa la questione del prestito ad interesse, vale a dire l’avarizia-cupidigia simboleggiata dalla dantesca lupa, Andrea di Bonaiuto aveva raffigurato, tra il 1365 ed il 1367, i ‘Domini canes’ (i cani del Signore) nell’atto di difendere la città di Firenze, e più in generale l’ecumene cattolica, dalla piaga dell’usura e della brama di denaro.

Alla luce di ciò, perché non pensare che il ‘veltro’ stesse a simboleggiare la venuta di un domenicano che con la sua predicazione avrebbe azzannato ed ucciso la fiera che tanto male aveva sparso nel mondo? Quando Dante scrisse la Commedia, i ‘veltri’ che lottavano contro il diffondersi dell’usura erano proprio i seguaci di San Domenico la cui madre Giovanna d’Aza, citata da Dante nel XII canto del Paradiso e come narra la leggenda che il Poeta certamente conosceva, ebbe in sogno la visione di partorire un cane che avrebbe difeso il gregge di Dio. Chi, meglio di un domenicano, avrebbe potuto attuare la vendetta sospirata nel XX canto del Purgatorio da Ugo Capeto la cui stirpe corrotta dall’avarizia aveva ucciso, con Carlo d’Angiò, il celebre Tommaso d’Aquino dell’Ordine di San Domenico? Se guardiamo al contesto socio-economico in cui Dante visse e che certamente influenzò la sua opera più celebre, la figura del ‘veltro-domenicano’ ci appare dunque del tutto plausibile perché solo la dottrina domenicana condannava in toto l’idea che fosse lecito arricchirsi prestando del denaro con interesse; concedere ciò significava, per loro come per Dante, giustificare ed aprire le porte all’insaziabile cupidigia del denaro.

Da questo punto di vista la Commedia può essere considerata un’opera scritta per partecipare a questa lotta che vide contrapposti ‘veltri’ e ‘lupi’, ed è Dante stesso, nel XXV canto del Paradiso, a dichiararsi «nimico» di queste fiere crudeli; certamente non crediamo che egli intendesse vedere nel famelico animale i frati francescani (come forse aveva fatto Andrea di Bonaiuto nell’allegoria del Cappellone degli Spagnoli), quanto quel ceto politico-mercantile che aveva sostituito alla sobrietà di costumi descritta dall’avo Cacciaguida la corruttela dell’avarizia. Se dunque guardiamo al contesto del tempo, le speranze nutrite da Dante circa la definitiva messa al bando di dottrine e pratiche economiche che avrebbero permesso all’«antica lupa» di spargere impunemente il peccato della cupidigia, non potevano risiedere che nella predicazione dei ‘Cani del Signore’, i veltri che, soprattutto a Firenze, tuonavano dai pulpiti contro il diffondersi dell’usura fonte dell’avarizia.

Ciò che Dante non poteva certo immaginare era che a distanza di due secoli la profezia del veltro che aveva aperto la Commedia sarebbe naufragata proprio per volere di un fiorentino: il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni de Medici eletto al soglio pontificio col nome di Leone X, promulgò nel 1515 una bolla (la Inter multiplices) con la quale si concedeva l’apertura di Monti di Pietà che avrebbero prestato denaro con un interesse del cinque per cento: nell’ottica dantesca la lupa aveva sbranato il veltro.