Il movimento angelico: ‘…la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani’?

Per due volte, nella Commedia, Dante invita il lettore a prestare particolare attenzione a quanto sta per accadere; si tratta di due terzine che interrompono il succedersi del racconto e la cui funzione è quella di avvisare il lettore che di lì a breve egli si troverà di fronte ad un qualcosa che richiede la sua massima concentrazione. I passi in questione sono Inf. IX, vv. 61-63:

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto ’l velame de li versi strani.

e Purg. VIII, vv. 19-21:

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,

ché ’l velo ora è ben tanto sottile,

certo che ’l trapassar dentro è leggero.

I dantisti sono d’accordo nel ritenere che Dante stesse appunto avvertendo che il seguito del racconto sarebbe stato di senso allegorico e che pertanto il lettore avrebbe dovuto fare appello alle proprie capacità intellettive per giungere al significato di ciò che si apprestava a leggere. Con questo intervento intendiamo dimostrare, al contrario, che i due passi sono ben lungi dall’introdurre, nel loro contesto, un’allegoria.

Posto che il velo della terzina del Purgatorio sia il medesimo velame di cui si parla in quella dell’Inferno perché altrimenti non si spiegherebbe quell’ora che rende il primo più agile ad ‘alzarsi’ rispetto al secondo, ci sembra ovvio che entrambi, velame e velo, ‘nascondano’ il medesimo oggetto. Dante dunque non sta assolutamente preparando il lettore ad affrontare un diverso livello narrativo come si è soliti credere, ma lo sta in entrambi i casi avvisando, molto più ‘semplicemente’, che il prosieguo dei versi, per quanto strani, avranno a che fare con una precisa dottrina; dottrina che, evidentemente, doveva essere rivestita agli inizi del XIV secolo di una certa importanza e che Dante temeva potesse passare inosservata durante la lettura dei canti senza un ‘segnale’ che ne indicasse la presenza. Vediamo di quale dottrina si tratta.

In entrambi i casi le due terzine precedono l’avvento di angeli (uno nel primo, due nel secondo) che permettono al pellegrino Dante ed alla sua guida Virgilio di proseguire il cammino ostacolato dai diavoli che chiudono loro le porte della città di Dite la prima volta nell’Inferno e dal serpente genesiaco che appare nella ‘valletta dei principi’ la seconda nel Purgatorio; quali ministri di Dio essi si trovano dunque a compiere un’operazione affinché la Sua imperscrutabile volontà sia portata a termine e, per farlo, giungono tempestivamente in soccorso ai due viandanti. A nostro avviso la dottrina che Dante nasconde sotto i ‘veli’ della narrazione poetica ma sulla quale cerca, al contempo, di puntare i riflettori dell’attenzione, consiste proprio nella modalità con cui gli angeli intervengono lungo il tragitto nell’aldilà per svolgere la loro azione salvifica. Invero, la questione sul come gli angeli si trovassero a compiere le loro mansioni di ministri divini era, al momento in cui il poeta attendeva alla stesura del Poema, questione dottrinalmente importante e delicata su cui dibattevano, in aperta polemica tra loro, l’Ordine dei frati domenicani e quello dei frati francescani.

Centro di questo dibattito teologico il problema della localizzazione angelica, vale a dire come un angelo potesse spostarsi da un luogo all’altro del Cosmo. Secondo la dottrina domenicana, con a capo Tommaso d’Aquino, un angelo si muoveva da un punto all’altro dell’Universo istantaneamente, senza cioé percorrere il tragitto che separava i diversi luoghi in cui si trovava ad operare; al contrario, secondo i teologi dell’Ordine di San Francesco se un angelo avesse dovuto compiere uno spostamento da A a D, avrebbe dovuto percorrere anche i punti intermedi B e C. Quando Dante scrisse la sua Commedia, la speculazione di Tommaso non era ancora divenuta la dottrina ufficiale della Chiesa e inoltre, nel 1277, la tesi che un angelo fosse in grado di spostarsi istantaneamente venne condannata come contraria alla fede cattolica dal Vescovo di Parigi Etienne Tempier.

Detto ciò, Dante si trovava davanti alla necessità di prendere partito per una di queste due diverse opinioni concernenti il movimento angelico e, considerata l’importanza teologica della questione, egli la introduce con quelle due terzine dal momento che, non essendo esposta in modo dottrinale, dovrà essere ‘riconosciuta’ dal lettore senza un’esplicita dichiarazione in merito da parte del poeta. Rileggendo dunque i passi di Inf. IX, vv. 61-63 e di Purg. VIII, vv. 19-21 nel loro contesto tutt’altro che allegorico, è evidente quale sia la netta posizione assunta da Dante relativamente al problema della localizzazione angelica che, secondo quanto affermato dal poeta, resta più facile da decifrarsi nel passo della seconda Cantica: infatti egli racconta non solo di aver visto, con i propri occhi, i due angeli scendere dall’alto (vv. 24-25 «e vidi uscir de l’alto e scender giùe / due angeli…») e posarsi ai due lati della valletta in cui si erano raccolte le anime (vv. 31-32 «L’un poco sovra noi a star si venne, / e l’altro scese in l’opposita sponda»), ma assicura anche il lettore di aver visto i due ministri divini muoversi contro il serpente che si stava avvicinando verso di loro (v. 105 «…vidi bene e l’uno e l’altro mosso»). Pertanto, come sosteneva la tradizione francescana, gli angeli della Commedia percorrono il continuum spaziale senza muoversi istantaneamente come ritenevano, al contrario, i teologi dell’Ordine domenicano. Ora, se gli angeli si spostano nello spazio secondo questa modalità, ciò significa che per raggiungere un qualsiasi luogo dell’Universo essi necessitano, per farlo, di un certo lasso di tempo; necessità evidentemente non contemplata nella dottrina del movimento istantaneo e che, puntualmente, scorgiamo tra le righe della Commedia. Dopo aver messo Dante a parte dell’intenzione dei diavoli a non far loro proseguire il cammino oltre la citta di Dite, Virgilio lo conforta spiegandogli, nell’ultima terzina del canto VIII, che ‘qualcuno’ ha già oltrepassato la porta infernale per giungere in loro soccorso:

e già di qua da lei discende l’erta,

passando per li cerchi sanza scorta,

tal che per lui ne fia la terra aperta.

Si tratta del ‘Messo celeste’, l’angelo che, scacciando le forze del male, aprirà le porte di quella città ostile. Dal testo si comprende con chiarezza che per compiere questa operazione egli non appare improvvisamente sulla scena, ma deve percorrere tutto il tragitto che separa la Regione divina da quella infernale impiegando con ciò del tempo come dimostra, al verso 9 del canto IX, l’esclamazione di Virgilio: «Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».

Come abbiamo detto, il movimento angelico non è affrontato da Dante all’interno di un canto dottrinale che risolve, con precise argomentazioni, una determinata questione; nella Commedia egli dice solo che i Ministri di Dio si muovono nello spazio e nel tempo perché questo è ciò di cui lui ha fatto esperienza nell’aldilà, e affinché su tale esperienza si concentri l’attenzione del lettore essa viene appunto introdotta con i due richiami di Inf. IX, vv. 61-63 e Purg. VIII, 19-21. È ben comprensibile, dunque, il fatto che i dantisti [come aveva affermato J. Pépin nella voce ‘Allegoria’ dell’Enciclopedia dantesca] si affannino non poco a sciogliere il senso dell’ ‘allegoria’ sottesa a questi versi strani, dal momento che essi cercano una cosa che non c’è. Più chiaro di così Dante non poteva esserlo: velame e velo nascondono una medesima dottrina, quella del movimento angelico, ed è a quella che i commentatori avrebbero dovuto rivolgere l’attenzione per comprendere che il compito delle due terzine è quello di introdurre il lettore all’interno di una questione filosofico-teologica di primaria importanza nella cultura del XIII e XIV secolo.